Proseguiamo con i racconti brevi .
Oggi vi propongo il testo che ho scritto recentemente per un concorso organizzato da un altro blog VCUC
Il palazzo abbattuto
Seduta al solito tavolino d’angolo nel bar sotto casa, con un cappuccino fumante e una brioche alla crema sul tavolino, sfoglio rapidamente lo schermo del mio smartphone leggendo svogliatamente i titoli delle news.
L’immagine di un vecchio palazzo attira la mia attenzione, mi soffermo, ingrandisco la fotografia in bella mostra sotto al titolo del giornale “ Abbattuto stabile abusivo e ormai fatiscente alla periferia di …”
Avverto una fitta dolorosa alla tempia destra e ritorno con la mente alla mia prima infanzia.
Avrò avuto circa quattro anni, vivevo con mia madre in un appartamento piccolo e sudicio ai limiti della città, in un quartiere malfamato e poco raccomandabile. Non uscivo mai, mi limitavo a passare le giornate nella mia camera sola e spaventata a parlare con la mia unica bambola, regalo di una misteriosa zia di cui non si poteva parlare senza provocare urla e crisi isteriche.
La mamma usciva spesso, a volte senza nemmeno avvisarmi, ero abituata a rimanere sola attendendo con ansia e timore il suo ritorno. Quando sentivo la porta d’ingresso che si apriva socchiudevo l’uscio del mio piccolo regno e con un occhio solo cercavo di capire l’umore di quella donna dalla chioma così simile alla mia e con gli occhi magici, come dicevo io.
Non vi era nulla di poetico in questa definizione, li chiamavo così perché cambiavano continuamente, erano arrossati con le iridi enormi e la pupilla piccina piccina quando era stanca e aveva bisogno di dormire per ore, erano luminosi quelle rare volte in cui era di buon umore e mi coccolava, cantava e si sforzava di rimettere ordine in casa cantando.
C’erano però dei giorni in cui la parte nera diventava enorme, e quelli erano i peggiori, nella mia fantasia di bambina immaginavo che un mostro scuro entrasse attraverso quegli occhi e comandasse la mamma. In quelle occasioni non andava bene nulla, riversava la sua rabbia cieca su di me a suon di calci e pugni, urlava per ogni piccola cosa, continuava a muoversi in modo veloce e nervoso dicendo che ero stata la sua rovina.
Mi guardava con gli occhi fuori dalle orbite, puntava il dito dalle unghie nere e rosicchiate verso di me e strepitava “ Tu, piccola sanguisuga! Non riesco a trovare pane per me e devo pensare anche a te! Non fai mai nulla! Non vai a cercare cibo e sei troppo piccola per portarti in strada con me! Sei solo un peso per me, hai capito? Quando usciva di casa nei periodi neri, come li chiamavo io, mi legava le caviglie ei polsi alla gamba del tavolo in cucina con una corda e spariva per giorni interi.
Odiavo quei giorni, storco il naso ricordando l’odore dell’urina e degli escrementi che inevitabilmente mi inzuppavano i vestiti dopo alcune ore e il terrore di non vederla tornare e di morire di inedia in quella lurida cucina, calde lacrime iniziano a scorrere sulle mie guance così simili a quelle che versavo ai tempi.
Riguardo la foto, e ne sono certa, si tratta dello stesso palazzo. Il luogo del mio dolore ma anche della mia salvezza e finalmente smetto di piangere e sorrido.
Ero molto stanca, non mangiavo da giorni e faceva freddo. La mamma non rientrava e non sapevo cosa fare, avevo paura di morire lì sola come un cane ma avevo paura anche del suo ritorno. Forse non sarebbe più tornata perché io ero cattiva, perché le creavo solo problemi e lasciarmi qui a morire in silenzio era la giusta punizione anche se non capivo cosa avessi fatto di sbagliato, se solo mi avesse spiegato come farmi perdonare e come far uscire quel mostro dal suo corpo! Con questi pensieri mi appisolai ma dei passi concitati e delle voci mi destarono. Sembravano uomini, le voci erano simili a quelle degli amici che la mamma ogni tanto portava a casa e che andavano con lei in camera a fare strani rumori e strani versi. Di solito non li incontravo, stavo bene attenta a non uscire dalla cameretta quando venivano da noi e a fingere di non esistere, ma certe volte litigavano con la mamma e sentivo le loro voci.
Poi un rumore sordo che mi ha fatto sobbalzare, e una luce accecante. Due signori con i vestiti eleganti e neri con una strana striscia rossa si sono avvicinati a me, che tremavo da capo a piedi in preda al panico.
Mi hanno sorriso, hanno sciolto le corde e con una dolcezza che non potrò mai dimenticare mi hanno presa in braccio ed accompagnata fino all’ ambulanza che aspettava davanti al portone. Ho pochi ricordi dei giorni successivi, ero sotto shock e la mia mente di bambina ha rimosso gran parte dell’accaduto. So solo che un assistente sociale prese a cuore il mio caso, rintracciò mia zia e mi garantì un futuro.
Ho molti ricordi felici della mia infanzia, dopo l’affidamento e l’adozione, ho frequentato le migliori scuole, ho vissuto una vita intensa e, cosa ancor più importante, sono stata amata. Considero Clara la mia vera madre e Giulio, suo marito, è e sarà sempre il mio papà. Quando la notte mi svegliavo madida di sudore e terrorizzata dopo l’ennesimo incubo loro mi abbracciavano, mi consolavano, mi raccontavano favole meravigliose per tranquillizzarmi. Il primo giorno di scuola mi hanno accompagnato, tenendomi per mano, mi hanno insegnato ad andare in bicicletta, ad avere fiducia nelle mie possibilità, a sognare.
Ho chiesto solo una volta della mia vera mamma, il giorno del mio decimo compleanno, e ancora non so spiegarmi perché.
Mi hanno spiegato che la mamma era volata in cielo quando io ero piccola e che aveva dato a loro il compito di occuparsi di me ma che non sarebbe mai tornata, una versione realistica ma dolce dell’accaduto.
Mia madre, quella vera, era morta per overdose nel vicolo sotto casa, con la schiena poggiata a quel muro che da ieri, a quanto dice il giornale, non esiste più.