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Recensione “Tutto come (im)previsto” di Henry Kolt

Recensione "Tutto come (im)previsto"

Recensione “Tutto come (im)previsto” di Henry Kolt

Una scatola che racchiude schegge di vita, parole e volti che riappaiono dal passato

Un’interessante ritorno al passato, una serie di lettere per rivivere con dolcezza e un pizzico di nostalgia gli anni spensierati dell’adolescenza e della gioventù

 

Ho da poco terminato la lettura di “Tutto come (im)previsto” di Henry Kolt.

Il protagonista ritrova in cantina una scatola contenente le lettere scritte dalle sue ex molti anni prima. Decide di leggerle e di rivivere emozioni e ricordi …

Il testo è decisamente interessante, non tanto per le tematiche trattate quanto per l’idea in sé. Il protagonista passa infatti quasi in secondo piano mentre racconta delle emozioni, gli amori, le paure, le consuetudini, le paure che molti di noi hanno vissuto seppur in luoghi differenti e con persone diverse. Un lungo pro memoria per ogni lettore; la vita è segnata dagli incontri e dalle esperienze. La scrittura è fluida e comprensibile, a tratti, a mio avviso, vi erano troppi dettagli ma nel complesso un racconto piacevole, spunto per innumerevoli riflessioni. Uno spaccato di vita.
CONSIGLIATO: A chi cerca un testo che si possa rapportare alla realtà, a chi ama rivivere con una punta di nostalgia le esperienze passate, a chi pensa che non conti solo il punto di arrivo ma anche il percorso per arrivare a destinazione
SCONSIGLIATO: A chi cerca azione, dinamismo, avventura
“Un’altra volta accadde invece un episodio più divertente. Era un tardo pomeriggio autunnale, di quelli nebbiosi – allora nella mia città c’era ancora tanta nebbia, non come negli ultimi anni che è in pratica scomparsa – e mi trovavo in redazione al giornale alle prese con la chiusura di un pezzo.

Con me c’era anche una collega, Ilaria: quella sera avevamo fatto tardi e il giornale doveva chiudere, eravamo praticamente gli ultimi. Uscimmo dalla redazione insieme.

Fuori faceva molto freddo e io avevo parcheggiato l’immancabile bici lì vicino accingendomi a pedalare verso casa.

«Uh, che freddo» disse lei stringendosi nel cappotto.

«Troppo per i miei gusti, almeno tu sei in auto?»

«No, sono venuta a piedi, non pensavo di fare così tardi!»

«Dove abiti?»

«Non lontanissimo, giù a un paio di isolati, ma con questo freddo…»

«Vuoi mica un passaggio in bici?»

«Oh sì, grazie, volentieri, così faccio prima».

Ilaria era leggerissima, piccolina e biondissima, non faceva tanti complimenti, un tipo che mi piaceva. Salì sulla canna della bicicletta e ci dirigemmo verso casa sua.

Chi si fa portare in bici, stando nella posizione di Ilaria, ha sempre una visibilità migliore rispetto a chi guida.

«Ehi, guarda un po’ là in fondo» disse dopo un centinaio di metri.

Mi fermai. All’angolo di una strada, un piccione cercava di prendere il volo senza riuscirvi, doveva essere mezzo congelato. Ci avvicinammo e il piccione stette lì, fermo.

«Ha freddo, dovremmo metterlo in un posto caldo» fece lei.

Tornammo in redazione dove recuperammo una vecchia scatola da scarpe. Le praticammo alcuni buchi per consentire il ricambio dell’aria e tornammo dal piccione facendovelo entrare.

«Sì, e ora? Anche messo qui dentro, se resta all’aperto morirà, non supererà certamente la notte con questo gelo.»

Mi venne un’idea.

«Forse la soluzione ce l’ho. Qui vicino abita una mia amica, vive sola, potrà tenere il piccione per la notte, poi lo potremo liberare.»

Dopo cinque minuti, Alice ci ricevette nella sua casina tutta bella linda e pulita.

«Cosa tenete lì nella scatola?» ci chiese guardandoci in malo modo.

«Ecco, abbiamo pensato che potrebbe passare la notte qui da te, l’abbiamo trovato semi assiderato poco fa» dissi tirando via il coperchio.

«Da me? Ma siete impazziti? Devo tenere questo schifo di piccione a casa mia?»

Chi l’avrebbe immaginato che ad Alice i piccioni non piacessero?

«Su, Alice, è solo per una notte, gli dai un po’ di pane, del latte e domani lo metti sul balcone, vedrai che starà meglio e volerà via da solo.»

Riuscimmo a convincerla: per quanto il piccione le facesse schifo, non voleva averlo sulla coscienza.

Riportai quindi Ilaria a casa sua.

Il giorno dopo, di prima mattina, tornai a casa di Alice. Mi accolse con un’espressione furente in volto, non disse nulla, ma mi portò in cucina.

«Guarda, il vostro piccione!»

Era successo che l’animale si era ripreso quasi subito già la sera prima e aveva cominciato a svolazzare qua e là per la cucina che adesso era ridotta a un mare di piume tutte disperse sul tavolo, nel lavandino, per terra.

In più, il piccione non voleva saperne di andarsene e non si lasciava acchiappare continuando a svolazzare per la casa e a disperdere piume.

Alla fine, il volatile uscì dalla finestra da solo.

Alice mi cacciò di casa dicendo che non aveva bisogno del mio aiuto per ripulire e mi tenne il broncio tutta una settimana. Poi le passò.”

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